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Le due rivoluzioni

Le due rivoluzioni

Sono passati ottantotto anni dal testo di Arthur Lehning. Quando fu scritto, nel movimento operaio e socialista, ma non solo, la tesi dominante – restata tale a lungo, fino a tempi assai recenti – era che la “rivoluzione di ottobre” sarebbe stata il naturale proseguimento della rivoluzione popolare del febbraio. Il testo lehninghiano ebbe il merito di esporre la tesi avversa: la “rivoluzione” dell’ottobre fu, in realtà, una controrivoluzione antioperaia ed antisocialista che, appropriandosi dello slogan “tutto il potere ai soviet” fece l’esatto contrario: distrusse questa grandiosa esperienza di autogestione popolare, mantenne in piedi le differenze di classe ed, anzi, abolì anche le poche conquiste in termini di libertà civili, politiche e sindacali che, prima e dopo la rivoluzione del febbraio 1917, il movimento operaio e socialista aveva conquistato, ridando di fatto il potere a quelle classi dominanti che, per un momento traballanti, trovarono nel partito bolscevico un comodo rifugio per ricostruirlo.

Oggi, la tesi di Lehning, di fronte da un lato alla diffusione della conoscenza della realtà dei fatti, dall’altro alla decisa riduzione di peso politico di quell’esperienza dopo la fine del “secolo breve”, dopo essere stata per molti anni appannaggio quasi esclusivo del movimento anarchico e delle tendenze maggiormente libertarie del marxismo, è divenuta dominante nella storiografia – al punto che di “due rivoluzioni” si parla persino in alcuni manuali scolastici – almeno nel senso di non dare per scontata la “continuità” tra il febbraio e l’ottobre, pur senza giungere al concetto di un ottobre come controrivoluzione antisocialista.

Da questo punto di vista il testo di Lehning – insieme ad altre riflessioni delle tendenze libertarie del comunismo – ha l’innegabile merito di aver fatto da apripista per una ricostruzione della Rivoluzione Russa non deformata dalla visione ideologica che il marxismo, particolarmente quello leninista, dava di sé. L’aspetto più interessante del testo, però, è forse proprio la sua capacità di mettere in luce il rapporto tra la prassi leninista ed i processi di restaurazione e rafforzamento del capitalismo: “Quando Lenin difende il monopolio dello Stato, quando non vede nel socialismo che un monopolio del capitalismo statale, egli impronta queste concezioni alla corrente d’idee del marxismo che mirano a trasformare i mezzi di produzione in proprietà di Stato. Senza dubbio, in Marx, questa trasformazione ha luogo nel momento in cui la concentrazione, provocata essa stessa dalla legge della produzione capitalistica, raggiunge un grado tale che essa deve liberarsi dall’«involucro del capitalismo». Questo involucro, prodotto delle condizioni causate dalla produzione, scoppia sotto l’azione delle forze di produzione divenute mature per passare allo stadio della proprietà collettiva. Ciò ha luogo quando lo Stato, cioè il proletariato organizzato in classe dirigente, concentra allora nelle sue mani le forze di produzione già centralizzate dall’evoluzione del capitalismo e le trasforma in proprietà di Stato, quando, per così dire, l’evoluzione della produzione capitalistica è arrivata al suo termine, e che il monopolio del capitale è divenuto un intralcio per il modo di produzione.”[1]

Detto questo, un limite della sua analisi è quello di non vedere il rapporto stretto tra la prassi leninista e la teoria marxista. Il brano succitato termina infatti così: “Ma non si trova alcun brano negli scritti di Marx che faccia allusione all’impiego possibile del potere statale del proletariato organizzato in classe dominante per accelerare esso stesso questa evoluzione del capitalismo, per fare progredire l’opera del centralismo capitalistico, questa concentrazione del capitale che appare, secondo Marx, come una conseguenza della legge della produzione capitalistica.”[2]

Qui Lehning, però, dimentica, solo per fare un esempio, il “decalogo” del Manifesto del Partito Comunista: “(…) 5.- Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo. 6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato. 7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo. 8.- Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura. (…) 10.- Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale e così via.”[3, corsivi miei]

Insomma, Lenin, sia a livello teorico, sia di prassi concreta, non è affatto “eterodosso” rispetto alle tesi di Marx. Questa inesattezza lehninghiana – dovuta, forse, a motivi di tattica politica contingente – non intacca però la sostanza dell’opera, i cui meriti essenziali solo oggi cominciano ad essere compresi a fondo fuori dall’area libertaria.

Enrico Voccia

NOTE

[1] LEHNING, Arthur, Marxismo ed Anarchismo nella Rivoluzione Russa, Pescara, Samizdat, 1999, p. 120.

[2] LEHNING, Arthur, Marxismo ed Anarchismo nella Rivoluzione Russa, op. cit., p. 120.

[3] https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/mpc-2c.htm


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